Il cappello del rammentone

“Investiti di affetti, concetti e simboli che individui, società e storia vi proiettano, gli oggetti diventano cose, [...]. Vi è una sorta di translatio imperii o di metempsicosi che fa sì che essi passino di mano e che la loro vita possa continuare anche dopo la morte o la lontananza di chi li custodiva. Attraverso i testamenti, gli acquisti o il semplice rinvenimento, essi diventano anelli materiali di continuità tra le generazioni, qualcosa di cui si può godere a turno.” (citazione da: Bodei, R., La vita delle cose, Laterza, Bari, 2014, Ebook, ISBN: 9788858113349).

Il valore delle cose

e cose rappresentano nodi di relazione con la vita degli altri, anelli di continuità fra le generazioni, ponti che ci collegano a storie individuali e collettive. Mi trovavo nel cortile di Casa Rossi a Soci (AR) lo scorso 25 luglio (2020) su invito dell’amico e poeta estemporaneo Gianni Verdi per “rendere omaggio” a un vecchio cappello usato più di quarant’anni fa da un bruscellante. Un cappello giallo con un fiocco verde, segnato dal tempo e recante all'interno il nome di chi lo portò l’ultima volta: Moreno. Un cappello a cilindro di foggia fiabesca, ripulito alla meglio ed esposto su un tavolo insieme ad altri curiosi oggetti portati da altrettanti posseditori. Ho subito ripensato a Remo Bodei e al libretto dal quale ho tratta la citazione in esergo: la transustanziazione degli oggetti in cose (il concetto è bodeiano) avveniva proprio davanti ai miei occhi di bruscellante della domenica. «La cosa (scrive Bodei) non è l’oggetto, l’ostacolo indeterminato che ho di fronte e che devo abbattere o aggirare, ma un nodo di relazioni in cui mi sento e mi so implicato» . Gli oggetti, in questo caso il cappello-del-rammentone, cominciano ad essere investiti dei nostri affetti, dei nostri ricordi, delle nostre esperienze; così attraverso le cose ci cominciamo ad orientare nelle nostre fantasie e nelle nostre idee contribuendo alla narrazione del nostro sé, alla narrazione dell’alterità che ci fronteggia e all’instaurazione di relazioni con la comunità. Nel nostro caso si tratta della comunità di Casalino dalla quale il cappello è stato realizzato e nella quale è tuttora custodito.

Il bruscello di Casalino

Casalino è una piccola frazione del comune di Pratovecchio-Stia nella quale da tempo immemorabile e fino agli anni Cinquanta del Novecento si è cantato il Bruscello senza soluzione di continuità, poi la tradizione è cessata per essere ripresa dal 1976 per un intero decennio, poi di nuovo silenzio fino al 2018; ma la tradizione è così, resta tale finché qualcuno non la cambia o la sospende e poi, come se niente fosse, rinverdisce d’un tratto e prospera adattandosi ai tempi e agli spazi che le vengono concessi. E il cappello, che pare un oggetto muto, una curiosità di costume, diventa segno e si fa simbolo assumendo una molteplicità di significati: è la storia della sarta che lo fece, del bruscellante che lo indossò, delle mani che lo curarono e lo sottrassero all’oblio conservandolo con cura fino ad oggi; è il ricordo di chi lo vide in scena e di chi lo avrebbe voluto indossare ma non lo fece; è l’insieme dei pensieri dei casalinesi, è Casalino esso stesso, è il bruscello che torna e si «trasforma» riunendo nuovi bruscellanti, alcuni dei quali affatto alieni alla tradizione, che cantano il bruscello di Casalino nella vicina Moggiona.

La testimonianza delle cose

Moreno Ristori, il «rammentone» che continua a svolgere questo importante ruolo nel gruppo dei bruscellanti. Foto: Francesco Maria Rossi

Ma come può il cappello del rammentone essere ponte di collegamento tra le generazioni? Quali sponde della tradizione unisce? Quali generazioni collega? E, soprattutto, come?
La questione è complessa poiché sono tre le generazioni da collegare: la prima è la meno numerosa e la più anziana, è quella generazione che ha vissuto il bruscello di anno in anno partecipando al rito che con esso si celebrava; la seconda è la generazione di mezzo, che ha vissuto il bruscello riscoperto negli anni Settanta e riproposto pressappoco nella forma «originale»; la terza è la più giovane, per lo più è ignara della tradizione o la conosce esclusivamente per via scolastica o per narrazione famigliare, non l’ha mai vissuta e non le appartiene che in minima parte. Tre generazioni dunque diversamente distanti tra loro; la prima e la seconda su una sponda, la terza sull’altra e nel mezzo un ponte sotto il quale è corsa la storia socio-economica di una comunità che si è andata assottigliando, che ha visto migliorare la qualità della vita, il livello di istruzione e le disponibilità economiche. Due mondi diversi nei quali i significati delle «cose» non si capiscono tra loro, dove le parole stesse hanno altri significati o non ne hanno alcuno perché sparite dai vocabolari personali. Il nostro cappello-del-rammentone sta nel mezzo e parla molto ai più anziani, racconta qualcosa alla generazione mediana e resta quasi muto o «mente» alla generazione più giovane per la quale il bruscello è diventato un fatto folkloristico ben lontano dal «mondo magico» demartiniano al quale il bruscello e la sua gente appartenevano fino a una settantina di anni fa. Il ponte è la generazione mediana che forse non crede più al valore apotropaico del rito ma ne conosce le modalità, ne comprende i significati e si propone di tramandarne la «memoria» sostenendo uno sforzo gravoso per definire le premesse utili alla reciproca comprensione.  Bisogna  ogni volta ricominciare col definire l’ambiente del bruscello, parlare dunque di relazioni sociali, di semiotica, di storia, di economia, di pedagogia, di filologia, di religione, di musica, di teatro e poi, finalmente, cantare dimostrando che ciò che si è definito importante lo è davvero.

E la tradizione?
La tradizione è tale se informa continuamente l’individuo, se lo rende partecipe di una comunità, se lo sostiene nell’incertezza del futuro. Come il cappello-del-rammentone che ha una storia per ogni orecchio, un significato per ogni intelligenza, un bruscello per ogni storia.

Le ottave di Gianni Verdi

Riporto di seguito le belle ottave di Gianni Verdi composte per l'occasione e nelle quali dà voce al cappello. Gianni è l'ultimo poeta estemporaneo del Casentino, nonché la colonna sulla quale poggia questa nuova stagione del bruscello.

Non son più risplendente, 'un son più bello
Ché il tempo addosso a tutti i segni lascia
Ma mi ricordo quando, nel bruscello,
Fiero si ergeva quel che oggi si sfascia
Ed io d'un rammentone ero il cappello
Nel mio paesino che anche lui si accascia
Però il destino sempre gira e barta
E oggi son tornato alla ribalta

Fu a cucirmi la mano d'una sarta
Nel lungo tempo che l'estate attende
Mettendo insieme stoffa, nastri e carta
Finché materia la sua forma prende
Se c'è l'abilità, niente si scarta
E quella mano la sapienza vende
Poi tutti ci guardavano ammirati
Per come in giro s'andava agghindati

Degli anni troppi ormai ne son passati
Però mi resta in cuore la speranza
Di risentire i canti appassionati
Fuggire via dalla dimenticanza
Un po' di matti si son ritrovati
Che offrono il bruscello e la sua danza
Spero che il fato m'abbia riservato
Anche un futuro, non solo il passato

E ora che mi sono presentato
Dal Casalino porto il mio saluto
Per quarant'anni, com'è stato è stato,
Ero in una cantina detenuto
Uscendo ho visto il mondo assai cambiato
Verso la tradizion lo sguardo è muto
Oggi col cellular ci si deprime
Viva il bruscello e tutte le sue rime!

Un video, pubblicato dall'Ecomuseo del Casentino, del bruscello cantato nel 1977. Si tratta del bruscello dei Nobili di Prisco Brilli riproposto a Moggiona nel 2019

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