L’«elastico della memoria»

Riflessione sull’ottava rima a seguito dell’uscita della raccolta Lingua madre di Emilio Rentocchini (Quodlibet, 2022)

Hor leti ha ’l pesce i lati liti, e l’onde:
Van gli auge’n frotta, e’n fretta in fratta fuori
Spende, e spande amor dardi in acque, e sponde,
Fora ogni fera, e fura, & arde i cori;
Ne ’l Ciel s’offende; ò nefand’ euri infonde:
Ne i succhi ha secchi il Sol, sì ch’io tra’ fior
Son, ma sto mesto, me misto al pianto il lutto
Detto i mie’ lai, la doglia indutto.

(Stanza amorosa “in bisticcio” di Fabio Marretti, XVI sec.,
tratta da Floriana Calitti, Fra lirica e narrativa.
Storia dell’ottava rima nel Rinascimento
, Firenze, Le Càriti, 2004, p. 138.)

E rósch e bósch fr’al lis e al fróst, e nos
strangos fra tant faciot, fr’al lósch e al brósch
un scaraboc, e nosch e vosch e mos
e sques in crous sul scran, e rósna e rósch
dedrê da i óss, e lósni ’d lê pr’i os;
po’ pióv, po’ i pòrdegh pin ed poch, ed bósch
smarî a murir smanious, smerciê dal mer,
smulèdegh, mói, marseint: m’a i senit, m’a imper
.

E tutti quanti fra il liso e il frusto, e nozze
smargiasse tra tanti facciotti, fra il lusco e il brusco
uno scarabocchio, e nosco vosco e mosse
e smancerie, in croce sulla scranna, e ruggine e pattume
didietro agli usci, e lampi di lei per le ossa;
poi piove, poi i portici pieni di poco, di brùscoli
scacciati a morire smaniosi, rimescolati dal mare,
molli, umidi, marcescenti: ma io li sento, ma imparo.

(Stanza n. 43 in Emilio Rentocchini, Lingua madre.
Ottave 1994-2019
, Macerata, Quodlibet, 2022, p. 63.)

A dire la verità, non conoscevo il poeta Emilio Rentocchini prima di sapere che nella collana di poesia dialettale Ardilut, pubblicata dall’editore Quodlibet, sarebbe uscita una sua raccolta di testi in ottava rima nel dialetto di Sassuolo (MO). Era una lacuna importante, sia per una presunta familiarità che dovrei avere con i dialetti dell’Emilia Romagna, sia perché per una ricercatrice che si definisce passionista dell’ottava rima non è proprio lodevole ignorare l’esistenza di un poeta, anzi “del poeta” che scrive in dialetto esclusivamente in ottave. Ma non conviene fare finta di conoscere, o di avere perlomeno già sentito dire, perché non credo di essere la sola frequentatrice del mondo della poesia estemporanea in ottava rima a non aver conosciuto prima Rentocchini e forse lo stesso Rentocchini (chissà se grazie alla rete ce lo farà sapere) potrebbe non avere familiarità con l’ottava rima cantata all’improvviso, come del resto tantissimi altri poeti, musicisti, lettori.

Ma è proprio da questa duplice valenza dell’ottava che vorrei partire: come stanza che vanta una secolare longevità nella letteratura italiana (e perlomeno anche in alcuni dialetti), e come stanza sulla quale si canta all’improvviso dalla fine del Trecento, se si presta fede alla descrizione del contrasto poetico di Gidino da Sommacampagna (ms, Biblioteca Capitolare di Verona, XIV sec.) di cui qui riporto il passo che a noi interessa:

Contrasto ee quando duy compagni cantando parlano luno contra laltro, de una medesima materia: e lo primo che comincia ee appellato opponente, e lo secondo ee appellato respondente: e luno tene la sua oppinione per una de le parte, e laltro responde e tene una opposta oppinione per unaltra parte, a modo de una disputanza: e zaschaduno de loro canta una stancia de lo ditto contrasto, la quala stancia può essere de octo versi de undexe sillabe per zaschaduno. (Gidino da Sommacampagna, Trattato dei ritmi volgari, ed. by Giovan Battista Carlo Giuliari, Bologna, Romagnoli 1870, pp. 223-224.)

Ma questi due percorsi della poesia in ottava rima non hanno goduto dello stesso prestigio. Infatti quello legato all’oralità – rappresentato dai cantori in banco e dai vari improvvisatori che cantavano accompagnandosi al liuto o con la lira da braccio o viola del Quattrocento e del Cinquecento, o l’improvvisazione poetica settecentesca praticata sia dai poeti aulici sia da quelli popolari, o proprio il contrasto poetico in ottava rima in larga parte ignorato dai folkloristi a cavallo tra Ottocento e Novecento – fino a tempi recenti è stato studiato come un sottoprodotto della letteratura e non come un’arte alla pari della poesia scritta. Non è un caso se Alessandra Di Ricco intitolava il suo importante libro su Francesco Gianni e Teresa Bandettini (L’inutile e maraviglioso mestiere. Poeti e improvvisatori di fine Settecento, Milano, Franco Angeli, 1990) con la definizione che lo stesso Metastasio ha dato dell’improvvisazione poetica, dopo che Vincenzo Gravina, cofondatore dell’Arcadia insieme a Giovanni Mario Crescimbeni, lo aveva convinto a lasciare l’attività di improvvisatore per diventare un poeta di scrittura. Questa definizione, «l’inutile e maraviglioso mestiere», si trova in un celebre passo di una lettera a Francesco Algarotti di cui riporto qui alcune righe:

Queste ragioni fecero risolvere Gravina a valersi di tutta la sua autorità magistrale per proibirmi rigorosamente di non far mai più versi allimprovviso; divieto che dal decimosesto anno delletà mia ho sempre io poi esattamente rispettato, a cui credo di essere debitore del poco di ragionevolezza e di connessione didee che si ritrova negli scritti miei. Poiché, riflettendo in età più matura al meccanismo di quellinutile e maraviglioso mestiere, io mi sono ad evidenza convinto che la mente condannata a così temeraria operazione dee per necessità contrarre un abito opposto per diametro alla ragione. Il poeta che scrive a suo bellagio elegge il soggetto del suo lavoro, e se ne propone il fine, regola la successiva catena delle idee che debbono a quello naturalmente condurlo, e si vale poi delle misure e delle rime come dubbidienti esecutrici del suo disegno. Colui allincontro che si espone a poetar allimprovviso, fatto schiavo di quelle tiranne, convien che prima di rifletter ad altro impieghi glistanti che gli son permessi a schierarsi innanzi le rime che convengono con quella che gli lasciò il suo contraddittore, o nella quale egli sdrucciolò inavveduto, e che accetti poi frettolosamente il primo pensiero che se gli presenta, atto ad essere espresso da quelle benché per lo più straniere, e talvolta contrarie al suo soggetto. Onde cerca il primo a suo grandagio le vesti per luomo, e saffretta il secondo a cercar tumultuariamente luomo per le vesti (dalla Lettera a Francesco Algarotti, Vienna, 1 agosto 1751, in Tutte le opere di Metastasio, a cura di Bruno Brunelli, Milano, 1943-1954, 1951, pp. 657-660.)

Fatta questa premessa, desidero a mio modo festeggiare l’uscita della raccolta di Rentocchini provando a considerare alla pari questi due filoni dell’ottava rima, invece che ritenerne uno subordinato all’altro, e provando a capire cosa ciascuna tradizione può far notare all’altra, spesso con la meraviglia con cui si mettono alla luce dei presupposti sui quali forse non si è discusso abbastanza.

Si diceva che il libro di Rentocchini esce nella collana Ardilut dell’editore Quodlibet, la collana dedicata alla poesia dialettale e diretta da Giorgio Agamben, il quale finora ha firmato le introduzioni di cinque dei sei volumi usciti. Contemporaneamente alla pubblicazione del primo, il sito dell’editore ha messo a disposizione dei lettori un numero del periodico Giardino di studi filosofici dedicato al Bilinguismo (https://www.quodlibet.it/libro/1000000000001) contenente un intervento di Agamben che suona come una non dichiarata introduzione alla collana, dato che riflette sul valore politico della poesia a partire dalla definizione di volgare illustre che Dante propone nel De vulgari eloquentia. La collana dunque si pone nell’ottica di ragionare sul rapporto tra lingua madre e grammatica, dato che l’essenza politica della poesia si gioca proprio nella relazione tra la lingua della poesia e le modalità espressive e i condizionamenti culturali a cui chi detiene il potere finisce per farci aderire. In misura diversa, essa si gioca inoltre sul rapporto della lingua con le norme sedimentate nel tempo per fissarla «attraverso regole e scrittura, perché resti comprensibile di generazione in generazione» (Agamben, Seminario su bilinguismo e poesia, p. 1). Nel De vulgari eloquentia Dante paragona il volgare illustre, la lingua perfetta della poesia, a una pantera profumata, di cui si può solo sentire l’odore tra i volgari municipali, nessuno dei quali può definirsi illustre. Attraverso la collana Ardilut, Agamben sembra volerci invitare a cercare il volgare illustre proprio nella poesia dialettale del nostro tempo, dunque tra quelle lingue che nel giro di qualche generazione rischiano di diventare incomprensibili (un tema ricorrente non a caso nelle poesie e nei monologhi in dialetto romagnolo del poeta, traduttore e studioso prematuramente scomparso Giovanni Nadiani), e che hanno un rapporto spesso conflittuale con la scrittura, a cui si adeguano con fatica pur di non rinunciare alla loro potenza espressiva, obbligando il lettore a fermarsi continuamente, per cercare nell’ortografia un suono che talvolta fatica a riconoscere o immaginare e per riflettere a cavallo tra dialetto e traduzione italiana.

Il titolo della raccolta di Rentocchini uscita per Quodlibet, Lingua madre, riprende quello di un volume di poesie pubblicato dallo stesso autore nel 2015 e ora introvabile (Emilio Rentocchini, Lingua madre. Ottave 1994-2014, Sassuolo, Incontri, 2016), ma il volume uscito per Ardilut contiene ottave composte dal 1994 al 2019, dunque anche le 44 pubblicate in un secondo volumetto stampato nel 2019 (Emilio Rentocchini, 44 ottave, Ro Ferrarese, Book Editore, 2019). Questo volumetto rimane tuttavia estremamente interessante per le osservazioni introduttive che lo stesso Rentocchini offre al lettore, sotto forma di scambio di email avvenuto nell’estate 2014 con Maria Cristina Cabani, professoressa all’Università di Pisa, che all’epoca aveva posto alcune domande al poeta in preparazione di un convegno sulla poesia del Novecento che doveva tenersi a Città del Capo. Nel suo saggio introduttivo alla raccolta appena uscita, Agamben riporta alcuni passi da queste mail di Rentocchini ed è proprio dalle considerazioni del filosofo che desidero partire.

È Rentocchini stesso (44 ottave, p. 8) a dichiarare di aver iniziato a scrivere ottave in dialetto dopo una intensa lettura dell’Orlando furioso avvenuta nel 1988, con l’intento di inventare un nuovo uso dell’ottava: «il Novecento non crede ai poemi, non conosce cavalieri, mi dicevo. Ovvio che occorresse ripensare l’uso dell’ottava. Il poeta è isolato, il dialetto è accerchiato, pensavo. Isoliamo l’ottava e facciamone un rifugio ed un mondo», scriveva infatti in una mail alla Cabani. Agamben (p. 8) dunque osserva:

L’originalità del suo gesto non consiste tuttavia soltanto nell’ostinata adesione a questa forma chiusa, ripresa nella sua esatta struttura metrica di endecasillabi rimati (ABABABCC), quanto piuttosto nell’averla risolutamente strappata dal suo contesto, che dai poemi cavallereschi del Duecento fino a Boiardo e all’Ariosto è epico e narrativo, per trasformarla in una poesia autonoma di natura essenzialmente lirica.

Se si leggono queste due osservazioni, è naturale constatare che la passione per i poemi cavallereschi e in particolare per l’Orlando furioso accomuna Rentocchini non solo ai poeti estemporanei, ma anche ad un altro ambito che vive di poesia strofica e in rima, il maggio drammatico, che in alcuni paesi dell’Appennino Reggiano, a 50-60 km a sud-ovest di Sassuolo, ha una sua vitalità particolare. I testi dei maggi drammatici di quell’area sono prevalentemente in quartine di ottonari, ma l’ottava viene talvolta impiegata in momenti particolarmente drammatici, specialmente la morte di alcuni personaggi, in cui l’azione è sospesa e il protagonista, o un altro personaggio, si lascia andare ad un’ultima dichiarazione o ad un lamento. La gran parte dei testi dei maggi drammatici risente fortemente del successo in ambito popolare dei poemi cavallereschi e proprio per questo, dal versante dell’uso orale dell’ottava e più in generale della poesia basata su un rigido schema metrico (ma anche nel mondo del teatro di figura, in particolare di quello delle marionette), l’affermazione secondo cui il Novecento «non conosce cavalieri» suona decisamente sorprendente.

Morte di Rodomonte, frammento di una rappresentaizone di brani tratti dal ciclo carolingio. Asta (RE), 28 agosto 2022, Compagnia Maggistica Monte Cusna.

Questa affermazione inoltre tocca un nervo scoperto dell’improvvisazione poetica in ottava rima e cioè la tesi, sostenuta da Giovanni Kezich (I poeti contadini, Roma Bulzoni, 1986 e successivamente Some Peasant Poets, Bern, Peter Lang, 2013), secondo cui la poesia estemporanea in ottava rima sia un derivato della letteratura colta e in particolare dell’uso di leggere e memorizzare i poemi cavallereschi del XVI e XVII secolo. È una tesi che non è mai stata contraddetta, anzi, è stata confermata da ricerche che constatavano l’effettiva passione di molti poeti estemporanei (specie delle generazioni attive nella seconda metà del Novecento) per i poemi cavallereschi, spesso oggetto dei loro contrasti cantati. Ma negli ultimi decenni il tema cavalleresco (o “mitologico” secondo il termine impiegato da qualcuno) è sempre meno trattato, al punto che alcuni dei più apprezzati poeti attuali hanno potuto formarsi e acquisire padronanza metrico-ritmica e melodica dell’ottava senza una approfondita lettura dei poemi cavallereschi. Inoltre, riascoltando le registrazioni dei decenni passati che cominciano ad essere disponibili grazie ad alcuni poeti e ricercatori, specie della Conca Amatriciana e della Valle del Velino (Appennino della Provincia di Rieti), emergono in modo molto chiaro usi lirici dell’ottava nel contrasto: per esempio per omaggiare amici o il luogo in cui il poeta è stato invitato a cantare, per cantare del paesaggio, o per ricordare e celebrare poeti del passato. Alcune di queste registrazioni (rese disponibili da Giancarlo Palombini, Mario Ciaralli, Blandino Cesarei) sono riportate nell’Antologia poetica inclusa nel recente volume che Antonio Di Cintio ha dedicato al nonno Celestino Ciaralli, poeta estemporaneo di Castel Trione, frazione di Amatrice (Il poeta gentile. Celestino Ciaralli e il canto a braccio di Amatrice, Perugia, Morlacchi 2022). In realtà, ascoltando proprio le registrazioni del passato e quelle del presente, emerge il fatto che attraverso il contrasto in ottava rima si sia parlato e si possa tuttora parlare di tutto, e che proprio la bravura dei poeti stia nella capacità di impiegare una varietà di registri adeguati al tema e al contesto in cui sono chiamati a cantare. La descrizione trecentesca del contrasto poetico di Gidino da Sommacampagna, redatta ben prima della pubblicazione dei testi che secondo Kezich avrebbero consentito il passaggio dell’ottava dal mondo della scrittura a quello dell’improvvisazione, e la vitalità odierna dell’improvvisazione poetica in ottava rima, persistente anche quando il tema cavalleresco non è più così frequente, rendono meno convincente l’idea che l’oralità del contrasto poetico in ottava rima sia un sottoprodotto della letteratura colta e della sua diffusione grazie all’invenzione della stampa.

Se poi si scava un poco nella storia dell’ottava rima, emerge, a fianco di quella epico-narrativa, una tradizione lirica dell’ottava che ha tra i propri rappresentanti autori come Lorenzo de’ Medici, Poliziano, Serafino Aquilano e Pietro Bembo, solo per fare i nomi più noti. Il rapporto tra lirica e narrativa nell’ottava rima è stato ripercorso da Floriana Calitti (Fra lirica e narrativa. Storia dell’ottava rima nel Rinascimento, Firenze, Le Càriti, 2004), sottolineando più volte come anche nella tradizione lirica del Quattrocento e Cinquecento sia possibile riconoscere proprio quella faglia che separa tradizione colta e oralità, poesia “d’arte” e poesia dettata da “istinto naturale”, che è arrivata fino ai nostri giorni. Si direbbe allora che la tradizione lirica dell’ottava rima non si sia in realtà mai esaurita e che abbia percorso i secoli, talvolta come un fiume carsico, per riemergere periodicamente nella voce cantata e nelle straordinarie stanze di Rentocchini, alle quali ha offerto un canone metrico già consolidato.

Ma proprio sul rapporto tra poesia d’arte e “dono di natura” si apre un’altra questione che interessa sia il volgare illustre di cui va in cerca Agamben, sia l’improvvisazione poetica in ottava rima. I poeti estemporanei imparano a cantare all’improvviso e affinano la loro lingua esercitandosi con i poeti più anziani ed esperti, preferibilmente in contesti “a tavolino”, cioè letteralmente attorno a un tavolo, prima di affrontare le esibizioni poetiche sul palcoscenico. Certamente la lettura è una componente importante del loro apprendistato, ma la fase forse cruciale è acquisire quel coordinamento melodico-ritmico che permette di costruire l’endecasillabo senza contare le sillabe, imparando a far coincidere i respiri, le pause e l’ornamentazione melodica con una suddivisione del verso e con una scansione degli accenti sicura. Una volta acquisita, sempre con la pratica, anche una certa velocità nel trovare le rime, l’improvvisazione poetica diventa quasi un modo alternativo di parlare, che consente di ragionare con una lingua e un suono diverso rispetto al parlato ordinario. I poeti cantano a turno, una stanza per ciascuno, alternando il canto all’ascolto e riprendendo l’ultima rima lasciata dal poeta precedente. L’oralità dunque, nel contrasto poetico, comporta la creazione di uno speciale spazio sonoro, con una propria tonalità emotiva, in cui si gioca la relazione non solo tra i poeti, ma anche tra i poeti e il pubblico.

Emilio Meliani e Marinella Marabissi cantano a contrasto su “la sbandata e lamor puro”, Cortona, 5 settembre 2021.

L’oralità di Rentocchini, secondo Agamben (anche se forse dal suo punto di vista questa constatazione si potrebbe estendere a tutta la poesia dialettale della collana Ardilut), è radicata nella scrittura e necessita di quello spazio bianco, tra testo in dialetto e traduzione italiana, in cui vaga l’occhio del lettore, rapito in una dimensione temporale speciale, intento, in silenzio «come in una sospensione e un bilico tanto del pensiero che del sentimento», a ragionare sul «momento sorgivo dell’evento di parola» (p. 9). Agamben infatti riesce così a teorizzare una lingua della poesia che va oltre l’opposizione tra oralità e scrittura. Una terza lingua la cui natura si chiarisce leggendo un breve passaggio dall’Avvertenza di Agamben al volume dedicato a Scataglini: è «inventio del poeta che, secondo l’etimologia suggerita da Agostino, in id venit quod quaerit, raggiunge quello che desidera e cerca, cioè una lingua inassegnabile e non di meno accessibile e comune» (in Franco Scataglini, Tutte le poesie, Macerata, Quodlibet, 2022, pp. vii-viii).

Va però osservato che anche senza voler dare al termine “grammatica” un significato troppo pedante, è indubbio che chi scrive poesia in dialetto deve in qualche modo adattarsi alla grammatica, perlomeno quella necessaria per scrivere con una ortografia coerente, spesso appresa con difficoltà e da alcuni lettori letta con fatica. Ma è proprio questa prova faticosa, per Agamben e Rentocchini, a far intravedere la pantera profumata. Se la voce della poesia estemporanea in ottava rima crea un ambiente sonoro e cerca una relazionalità col pubblico, nutrendosi degli sguardi e della corporeità di chi partecipa al contrasto poetico, l’ottava di Rentocchini invece è «un rifugio e un mondo», in cui il lettore, in solitudine e in silenzio, presta la propria voce interna al poeta e prova a individuare una «terza lingua», come dice Rentocchini (p. 15), sforzandosi di riconoscere il senso della traduzione italiana nella lingua del poeta, specialmente se sconosciuta a chi legge.

Ma è lecito provare a cercare la pantera profumata non solo nello spazio bianco della pagina, in quel «frattempo» (p. 8) filosofico che precede la scrittura, ma anche nell’articolazione tra voce e respiro dell’improvvisazione poetica? Secondo me sì, anzi lo è a maggior ragione nell’ottava rima, la cui storia è un intreccio continuo di voce e scrittura che si imitano e si rincorrono a vicenda. Se ci si accontenta della tesi di Kezich, si finisce per pensare che l’improvvisazione poetica in ottava rima non sia altro che ripetizione e trasformazione di un modello letterario e si avvalla il giudizio di inferiorità attribuito alla poesia estemporanea, che da questa prospettiva è vista solo come una prassi combinatoria, talvolta virtuosistica, ma comunque ripetitiva, una sorta di cascame della “vera” letteratura. Si finisce per ignorare quella attitudine creativa, capace di trasformare modelli semplici, come la strofa di otto endecasillabi legati da tre rime alternate e una baciata, in inaspettati dialoghi cantati, su qualsiasi argomento sia ritenuto rilevante per i poeti o per il loro pubblico. Significa dunque non riconoscere nell’improvvisazione in ottava rima proprio quella creatività vitale che secondo Noam Chomsky, nel famoso dibattito con Michel Foucault, caratterizza la natura umana (Noam Chomsky, Michel Foucault, La natura umana. Giustizia contro potere, Roma, Castelvecchi, 2018). E la creatività linguistica, ci insegna Dante, non ha necessariamente bisogno di aderire ai condizionamenti di un sistema grafico, ma può svilupparsi semplicemente nella relazione fra umani. La poesia, dunque, se alimentata da passione e dedizione, o meglio da vero e proprio studio (intendendo con questo termine la ricerca continua che è alla base di qualsiasi apprendimento), può nascere nella voce di chiunque, a prescindere dal grado di scolarizzazione, è appunto un “dono di natura”, dicono i poeti estemporanei. E dunque non è da escludersi che pure nell’improvvisazione in qualche caso la poesia assuma quelle caratteristiche che Dante nel De vulgari eloquentia attribuiva al volgare illustre: illustre, appunto, cardinale, aulico e curiale.

Spetta alla relazione tra poeti e pubblico creare le condizioni per poter riconoscere, anche solo per qualche istante, il profumo della pantera, che nell’oralità non si crea direttamente, ma è conseguenza di un rapporto armonico, come la quintina nel canto a cuncordu a Castelsardo o il terzo suono di Tartini, se vogliamo divertirci con qualche paragone musicale. Contrariamente alle affermazioni di Metastasio nella lettera all’Algarotti citata sopra, tutti gli appassionati di canto a braccio sanno che non basta mettere in fila versi e rime corrette per ascoltare un contrasto su cui si continuerà a parlare anche il giorno dopo. Ci vuole il giusto grado di aspettativa reciproca tra poeti e pubblico, ci vuole il desiderio di ascoltare i poeti cantare del mondo liberandosi dei condizionamenti linguistici e culturali imposti dal tempo presente, godendo del suono della loro voce, dell’espressività o del tradimento che essa imprime alla parola, consci di fare tutti parte, poeti e pubblico, dello speciale spazio sonoro che si viene a creare nella performance e che si vive solo standoci dentro, non viene certo restituito dalle riprese video, di cui pure tutti facciamo uso. Queste condizioni però non si verificano quando si canta “per mantenere la tradizione” o per appagare in modo consolatorio un senso di sradicamento e di perdita di identità o per valorizzare un presunto “patrimonio” che si teme di perdere. No, quelle sono le condizioni che congelano qualsiasi forma di pensiero musicale e poetico, lo sanno benissimo anche i poeti dialettali. La poesia deve essere pensiero che nutre la comunità: è questa la proprietà curiale che Dante attribuisce al volgare illustre e che l’improvvisazione poetica in ottava rima può ancora oggi far rivivere, allo stesso tempo alimentandosi di essa, sia quando esplora l’ambito narrativo che quando si addentra nell’espressione lirica, forse una vena più sottile, ma persistentissima, che finora non ha mai smesso di riemergere.

Felice Vanni e Pietro De Acutis cantano liberamente (cioè senza un tema dato) al termine dell’esibizione poetica del 3 agosto 2021 a Bacugno (RI), in occasione della Festa della Madonna della Neve. Si tratta della prima serata pubblica dedicata ai poeti a braccio dopo le restrizioni del 2020 e 2021. È una lunga riflessione sul valore comunitario della poesia e sul suo legame con i paesi di Bacugno e Terzone, di cui vengono menzionati il fiume Velino e il torrente Tascino, ritenuti sorgenti della poesia, e la fonte di Martana, oggetto di tanti contrasti in ottava rima perché contesa tra i bacugnesi e i leonessani. Verso la fine, i poeti ricordano i contrasti poetici sostenuti in passato ricorrendo alla metafora della battaglia, le cui ferite tuttavia guariscono senza bisogno di curarle.

Ecco dunque che una passionista dell’ottava rima improvvisata può finire per amare le ottave silenziose di Rentocchini proprio per la loro complementarietà all’ottava cantata: per le immagini inaspettate, talvolta oniriche, che offrono le sue stanze isolate, che non richiedono la risposta dell’interlocutore e dunque non pongono limiti all’immaginazione introspettiva e lasciano il lettore  vagare tra l’una e l’altra, come stanze di un unico enorme palazzo, in cui si può continuare a cercare ciò che non si è trovato o colto in quella appena letta. Per la sintassi articolata, per il loro parlare intensamente obliquo in cui però qualsiasi lettore finisce per sentire qualcosa di familiare, per i ricorrenti endecasillabi tronchi, per gli enjambement pure nel bel mezzo di una parola, per le fantasie che scaturiscono a leggere che léber si può tradurre in italiano come “libro”, “libri”, “libero” e “liberi” (stanza n. 77, p. 97). Solo una nostalgia rimane: quella per l’assenza dell’ottava rima nella traduzione italiana che, volendo essere solo funzionale alla comprensione del dialetto, rinuncia alla labirintica e liberatoria prigionia dell’ottava.

A dmand ed fend as pól rispender soul
con fres ed sfrus. Eh, piò as sfurdiga piò
l’elàstigh dla memoria al ciapa al voul
e as mett in testa d’eser – guerda un po’ –
casadour ed futur. Ma not col soul
l’è quell ch’i stròlghen i oc in al falò
ch’as ród. L’orba, padrouna dl’aria, l’an
gh’ha presia. E nueter andèm sul nostri man.

A domande di fondo si può rispondere solo
con frasi di frodo. Eh, più si fruga più
l’elastico della memoria prende il volo
e ci mette in testa di essere – guarda un po’ –
cacciatori di futuro. Ma notte col sole
è ciò che intuiscono gli occhi dentro al falò
che ci rode. La tenebra, padrona dell’aria, non
ha fretta. E noi camminiamo sulle nostre mani.

(Stanza n. 219 in Emilio Rentocchini, Lingua madre. Ottave 1994-2019, Macerata, Quodlibet, 2022, p. 239.)

2 thoughts on “L’«elastico della memoria»

  1. Fondamentali le riflessioni lanciate dall’articolo di C. Ghirardini che rimettono in discussione la natura derivata dell’ottava rima improvvisata. Trovo davvero interessante che le argomentazioni siano fornite partendo da una raccolta di ottave di E. Rentocchini scritte nel dialetto di Sassuolo: una sorprendente combinazione !! Complimenti anche per la scelta dei contributi video. Grazie Cristina !

  2. Gentilissima Ghirardini, ieri ho letto la sua bella Riflessione con molto piacere e la ringrazio. Mi sono poi permesso di informarne Quodlibet e adesso la sua ‘recensione’ compare nella rassegna stampa relativa al mio libro. Spero che la cosa non la disturbi. Volevo anche dirle che conoscevo Nadiani dagli anni Ottanta, ci incontravamo ogni tanto a qualche lettura in comune ed era sempre un piacere, l’ultima volta fu a Pordenone Legge poco prima della fine, c’era un bel clima e lui fu bravissimo. Ultima cosa: per più di vent’anni ho avuto una casetta sul confine della Val d’Asta.
    Grazie ancora e complimenti.
    Emilio Rentocchini

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